Il lettone 29\12\2018

FB_IMG_1549574711141Non sono una persona che crede nei pianeti che si allineano o nelle direttive astrali dello zodiaco, non credo precisamente in nulla, ma vivo di una lunga serie di convinzioni illusorie che giustifico a seconda degli eventi. Per esempio, credo profondamente nel fatto che nulla accade per caso. Che due vite che si incrociano non sono semplicemente una coincidenza.

Oggi non sarei dovuta andare all’università, in generale, nello specifico invece di certo non sarei dovuta andare alla facoltà di lettere. Non è la mia sede, non è il mio dipartimento, non è la mia università. Eppure è capitato, nella forma di un amico con cui avevo voglia di passare un po’ di tempo, magari per studiare. Poi lo studio è diventato una sigaretta, poi una chiacchierata e poi XX.

XX è timida, tanto. Però inizia a parlare con me e mi racconta di questa mattina, mentre era al letto con qualcuno, ma poi suonano alla porta. Sorprendentemente dopo dieci mesi torna nella sua vita XY

XY è un ragazzo alto, magro e con i capelli molto lunghi e sta poggiato ad un muretto, solo. Non fuma, non guarda il cellulare, non fa niente di preciso. Pensa.

XX inizia a raccontarmi di questo incontro folle, con un ragazzo trovato per strada accanto ad un cartello: “Sono un viaggiatore, cerco un posto in cui dormire”. Un viandante, un girovago, un ramingo.

La mia indole può essere sintetizzata nell’espressione “una vorace e insaziabile curiosità”, per cui la storia mi piace, mi sfizia, mi diverte. Possibile mai che un ragazzo così normale, dove normale non rispecchia assolutamente ciò che intendo dire, ma è la categoria prediletta per intendere chi non appare in alcun modo bizzarro, sia proprio il viaggiatore del cartello?

Inizio a parlare con XY: ha buone maniere, gli occhi molto dolci e gentili, un accento inglese stretto e duro, anche se deve passare prima per un sorriso grande.

XY ha 21 anni, uno meno di me, non è uno studente, non è un lavoratore, è qualcosa che non conosco: un viaggiatore. All’età di 20 anni è partito, con il suo zaino e ha deciso di camminare, ovunque fosse possibile, ovunque. Da due anni vaga e ha girato quasi tutta l’Europa, ma ora qui. Vuole continuare a scendere, prendere il suo kayak, che ora ha lasciato temporaneamente e poi vuole arrivare, remando remando, in Africa.

Gli dico che è impossibile, che ci vuole troppo tempo, che c’è troppo spazio. Mi risponde che ci vogliono nella migliore delle ipotesi 24 ore, che ci vuole molto impegno, che è molto spazio, ma che non è impossibile.

Gli chiedo se ha paura di morire, mi risponde di no. Se dovesse morire, avrebbe comunque vissuto quanto ha potuto nel modo che ritiene più giusto, perchè lui sta cercando qualcosa. Sta cercando un senso, una risposta, nei posti più remoti del mondo, ma anche in quelli più centrali, ovunque si possa nascondere, questo senso di tutto, lui lo troverà.

XY vuole fare il film maker, ma non nelle accademie di cinema. Non gli interessa imparare a riconoscere un’inquadratura o conoscere i termini tecnici. Lui vuole avere l’occhio. Sta creando, tramite le sue esperienze, un modo per guardare la vita che sia unico, che gli dia la possibilità di trasformare la sua stessa mente in una telecamera, di vedere il suo film, prima di realizzarlo.

Gli chiedo dei suoi genitori, della sua famiglia, se ne sente la mancanza, se sono in contatto in qualche modo e anche di come andò via. Risponde che non gli importa più di tanto, come non gli interessa molto di se stesso, d’altronde. Quando può, ma raramente, invia delle email. Non racconta molto del suo passato, non gli appartiene, lui guarda avanti, vive ciò che accade, non cosa è accaduto, non cosa accadrà. E non ha bisogno di raccontarlo a nessuno.

Un giorno, dopo un viaggio a Parigi, XY ha capito che ciò di cui aveva davvero bisogno era di cambiare prospettiva, di cercare un senso per le cose, di guardare più che di vedere, di vivere sul serio. Di abbracciare la vita com’è, consapevolmente. Per questo è tornato a casa, anche se in realtà, era già andato via. Mi dice questo: era andato via mentre tornava a casa da Parigi e da lì in poi è bastato solo prendere il necessario e continuare a camminare.

Gli chiedo cosa porta nello zaino, risponde cibo, acqua, un coltello da cucina, vestiti e poche altre cose utili alla sopravvivenza. Gli chiedo come sopravvive, come mangia, dove dorme, come fa.

Risponde che lavora dove può e come può, in cambio di cibo e un posto in cui riposare, a volte chiede alle persone la premura di offrirgli un tetto, altre volte dorme per strada, persino sotto al suo kayak. Mangia come e quando può, è stato anche una settimana senza toccare cibo, ma mi svela un segreto: se non puoi bere per due giorni di fila, ti passa anche la fame.

Gli dico la cosa più banale del mondo: lui è qualcosa che sta a metà tra Alexander Supertramp e Jack Kerouac, perchè prima di lui queste storie erano possibili solo tra le pagine dei miei libri, tra i miei eroi personali. Ride, ha letto entrambi, devo aver detto una sciocchezza. Non importa, per me è un supertramp. Ma risponde che lui non vuole scappare dalla società, ha rifiutato i suoi genitori, ha rifiutato il denaro per pagare gli studi di economia, ha chiuso delle porte importanti, ma ha scelto di vivere una vita senza confini.

Gli dico che per me questa è la forma più profonda di libertà, mi risponde che per lui non è così, che anzi si sente tutto meno che libero. Non capisco. Non me lo spiega. Un giorno magari lo capirò, non ne sono sicura. Mi racconta che non è libero, che deve pensare a come sopravvivere, che vuole arrivare in Africa.

Gli chiedo qual è la sua più grande paura, ci pensa. Non lo sa, non mi sa dare una risposta. Non la conosce. Chiedo a cosa pensa, qual è il suo pensiero principale ogni giorno, risponde come sopravvivere, come fare in modo di andare avanti.

Gli chiedo se si sente solo, risponde di sì. Molto solo. Ma questo fa parte del viaggio, scoprire quali sono i sentimenti reali, cosa si può provare davvero: la solitudine, la paura, l’amore, la nostalgia. Quando è solo, nel mare, a bordo del suo kayak, vuole capire cos’è la solitudine, vuole sentirlo sulla sua pelle. Quando è partito da Ischia per raggiungere Capri, contro la legge, contro la natura, contro il suo stesso corpo, ha sperimentato l’estremo senso della solitudine. Ed è sopravvissuto.

Gli chiedo, più volte, di scrivere la sua storia. Ha un diario, ma non è propriamente così. Sono solo delle annotazioni che scrive ogni tanto come resoconto delle sue avventure. Io sono morbosamente curiosa, vorrei sapere tutto di lui, ogni cosa. Vorrei poterlo leggere. Risponde che non ha intenzione di scrivere per ora, che forse lo farà, quando il suo viaggio sarà finito.

Gli chiedo il nome, il cognome. Il cognome non me lo dice, non è importante. Allora come farò a sapere che si tratta di lui, quando scriverà il suo libro? Risponde che lo saprò e basta. Gli dico che è coraggioso. Risponde che non lo sa, che non gli interessa, che non pensa mai a se stesso. Non è il centro dei suoi pensieri. Si sente egoista, dice che probabilmente ciò che ha fatto è stato egoista, lasciare tutto e andare via. Senza dire nulla. Rispondo che è la sua vita e nulla di tutto ciò lo sembra.

XY è un ragazzo estremamente coraggioso, ma non lo colpisce, non si sente così. Eppure lo è, non perchè stia viaggiando da solo, non perchè abbia scelto la vita del nomade, certo questo è sicuramente un atto di coraggio, ma ciò che trovo profondamente interessante, di tutta questa storia, è la forza con cui lui stia cercando. La sua estrema e profonda necessità di vivere l’avventura, di alzarsi e camminare ogni giorno, verso l’ignoto. Di avere fame di sapere, di risposte, anche se probabilmente queste risposte non le avrà mai. E allora cosa resta? Tutto. Resta tutto. Quello che ha vissuto, le persone che ha conosciuto, le avventure che ha affrontato, i pericoli, i rischi, le scoperte.

Gli dico che non riesco a vedermi al suo posto, che io non sarei in grado. Mi dice che non è una vita per tutti. Gli dico che è pazzo, mi dice che forse è vero, gli dico che la sua vita è la cosa più affascinante che abbia mai visto, gli dico che è pazzo ma meraviglioso. Risponde che non è così meraviglioso.

XY deve andare via, deve trovare un posto in cui dormire, XX non lo può ospitare. Li saluto, le chiedo se può trovargli qualcosa da mangiare. Così XY esce dalla mia vita, nello stesso modo in cui ci era entrato. Assolutamente per caso, anche se il caso non esiste.

Penso molto a ciò che mi ha raccontato, mentre fisso il mio libro, senza muovermi. Sono assolutamente convinta di questo: non può essere tutto qui. La vita, l’università, lo studio, poi il lavoro, la casa. Non può davvero essere tutto qui e se questo è ciò che sto costruendo per me stessa allora no, non ci sto, non mi basta. Non mi posso accontentare, non mi voglio accontentare.

Di certo non ho intenzione di riempire lo zaino di provviste e sparire, non potrei mai. Il mio cuore appartiene a troppe persone per permettermi di voltargli le spalle, ma non sento nemmeno verso di loro un obbligo rancoroso, semplicemente non mi va di farlo. Ma qualcosa devo fare, un modo devo trovarlo.

XY non era in pace, io non sono in pace. Ho un bisogno dentro, che si muove, si agita. Ho un drago che è obbligato alla quiescenza. Ma non potrà dormire per sempre e io certe volte lo sento, dentro di me. Lo sento agitarsi. Percepisco le sue ali all’altezza dei polmoni che vorrebbero distendersi, stracciare la mia carne e trapassarmi le costole, stiracchiarsi intorpidite e poi, con un colpo secco, finalmente librarsi in volo. Sento la sua gola, calda, ruvida, che vorrebbe tossicchiare prima un po’, schiarirsi la voce e poi incendiare e distruggere con la sua potenza di fuoco, sento i suoi artigli, nei fianchi, che hanno bisogno di sgranchirsi, che sono quasi atrofizzati e soffrono, che vorrebbero afferrare, stringere e devastare. E’ dentro di me e soffre, perchè anche io ho bisogno della mia strada da percorrere.

Ho bisogno di vedere, di conoscere, di saziare questa inarrestabile curiosità che si impossessa delle mia gambe e della mia testa, che mi fa annegare nel mare di domande che ogni giorno ballano nella mia mente. XY non l’ho incontrato per caso, era necessario che fosse lì, perchè il drago ha fame e lui ha buttato nella sua gabbia una bestia sacrificale. L’ha sfamato, giusto un po’, quel tanto che basta per fargli desiderare ancora carne fresca, sangue e ossa. Per poter affondare ancora i denti in un corpo caldo e deglutire, saziarsi.

Ho sempre detto delle mie stupide battaglie che erano draghi per me, da combattere, perchè il cavaliere ha questo unico compito. Di cadaveri di drago ne ho molti alle spalle e altrettanti, anzi di più, mi stanno ancora aspettando, ma la maledizione vuole che questo dentro di me dovrò sfamarlo, accudirlo e lasciarlo crescere, perchè è questo che mi rende affamata. Questo è l’inizio, oggi qualcosa è cambiato e non è stato un caso. Oggi inizia qualcosa, di cui non distinguo ancora le forme ma lo sento, che vive dentro di me. Oggi è soffiato un vento nuovo, quello che mi spinge e mi accompagna e capisco perchè aveva ragione XY: io non ho paura. XY canticchiava Boulevard of Broken Dreams, non so perchè, ma non è un caso.

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