Tre settimane – Tachicardia

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Quando ero piccola e naturalmente venivo interrogata su cosa avrei voluto fare da grande, io davvero non ne avevo la più pallida idea. Sapevo che avrei voluto aiutare gli altri o comunque fare qualcosa di buono, che avrebbe reso felice la maggior parte delle persone possibile.

Ma non esisteva un nome per tutto questo, una definizione. Solo una cosa poteva dirsi certa: l’università. Non una nello specifico, si intende. Ma sicuramente una, tra le tante. A sei anni avrei potuto dire con totale certezza che avrei frequentato l’università un giorno.

Poi sono cresciuta e le domande sul mio futuro sono aumentate: cosa farò da grande? Chi riuscirò a diventare? Mi sposerò? Avrò dei figli e una famiglia? Dove vivrò? Non ho mai saputo rispondere a nessuna di queste e ogni volta che ho creduto di poter prendere una decisione, poco dopo tutto è cambiato di nuovo. Non sono mai stata in grado di creare alcuna proiezione a cui potessi restare fedele, ma suppongo sia normale: parte integrante del dramma di crescere. Tranne una forte, costante, tenace certezza: l’università.

Alla fine, quando è arrivata l’età giusta, mi sono iscritta davvero all’università. Era il 2015 e ormai sono passati quattro anni da quell’ottobre in cui tutto cambiò. Fu il primo anno universitario, la prima volta che me ne andai di casa, l’inizio della vita che avevo aspettato. E adesso, forse, sta volgendo al termine.

Ho deciso di scrivere cosa mi sta accadendo in questi giorni in modo da poterlo sublimare in qualcosa di esterno da me stessa, di freddo e distante. Ma anche per poter ricordare, finché ne avrò bisogno, tutto il dolore che sento dentro ora. 

Tra tre settimane dovrei riuscire a laurearmi ma non posso considerare questo evento come una certezza, perché davanti a me, a distanza di una settimana l’uno dall’altro, ci sono ancora due esami orali, conclusione di due rispettive prove scritte che ho già superato. E anche se a tutti gli effetti suona come una piccolezza, un dettaglio da sistemare, mi sembra di star affogando tra miliardi di pagine, di appunti e programmi che non puntano a ridursi. Ovviamente mi rendo conto di quanto tutto questo sia irrazionale e poco pragmatico, ma sinceramente non me ne frega un cazzo. Questa è la mia ansia e le regole le decido io.

Ma questa ansia non è solo mia. Giugno e luglio sono per eccellenza i mesi più assurdi della vita di ogni studente, che si tratti di maturità, sessione estiva o laurea. Tutti sulla stessa barca, sì, ma navigando su un mare di pura merda.

Io questa traversata drammatica la sto vivendo a braccetto con una delle mie migliori amiche, fortunatamente. Anche se studiamo due cose completamente diverse, in due lingue diametralmente opposte, non importa. Ci guardiamo, occhi negli occhi, occhiaie nelle occhiaie, e ripetiamo ad alta voce come treni merci che sfrecciano, fischiando in faccia a chicchessia. Senza freni, senza timori, senza speranze.

La scena non è poi molto diversa dal setting di Ragazze Interrotte: camera bianca, pareti bianche, tavolo bianco, facce bianche. Due giovani donne, vorrei dire Winona e Angelina ma, dai, siamo seri. Davanti a noi a metà tra una scacchiera e un campo di battaglia, si dispiegano confusamente fogli, appunti, penne, disperazione.

La giornata tipo segue uno schema semplice ma efficace, frutto di attente riflessioni e analisi strategica: l’appuntamento è alle otto del mattino, il che comporta la sveglia alle sei e mezza. Una breve colazione a base di latte e caffè, ogni tanto i cornetti, se Susy non si mette storta, e una sigaretta. Poi la prima sessione, con pochissime pause, che possono comprendere: ultime parole immortali incise sulla mia pelle, sigarette, iastemme generiche, scrolling compulsivo e un consumo spasmodico di tutta una serie di sostanze, la cui assunzione in alti dosaggi dovrebbe essere vietata dai servizi sociali antidroga: una media di 5/6 tazzine di caffè, litri su litri di tè al limone che fa ruttare come un bidone di brioschi (e poi a noi piace solo quello alla pesca), un numero imprecisato di lattine di Red bull, che ti manda in botta come una crisi tourettica dopo che hai tirato cocaina. A questa serie di liquidi va sommata una pausa merenda che varia da panino maionese e wurstel o maionese e tonno, leggero, e un pranzo maggggico prodotto dalle deliziose manine della mia masta del panino, accompagnato da 20 minuti di episodio di Friends, che in sessione è l’unica via.

Questo stile di vita folle non può essere perpetrato per troppo tempo senza rischiare seri danni alla salute, ma è strettamente necessario in un momento del genere.

La vera domanda è: perché tutto questo? Perché il tempo è davvero poco e il lavoro sembra non terminare mai, l’ansia non permette ai polmoni di riempirsi completamente e i giorni passano uno dopo l’altro, inesorabilmente.

Questo non significa ovviamente che io non debba provarci, fino alla fine. Che ogni singolo respiro non sia dedicato alla mia lotta contro il tempo e contro i miei stessi limiti. 

Perché la verità è che il discorso di base torna sempre ai miei limiti, che non posso accettare in alcun modo, perché di peggio del fallimento, che è pur sempre una realtà da tenere in considerazione, c’è solo la mediocrità. La consapevolezza che in un mondo che muove verso l’ eccellenza, in cui ciò che mi è stato richiesto fin dai primi passi fosse l’impegno per la perfezione, rende il limite della mia mediocrità un dolore talmente acuto e profondo da impedire a me stessa il benché minimo senso di orgoglio o soddisfazione.

Festeggiare la propria laurea? Non mi è familiare come idea. Cosa mai dovrei festeggiare? Il punto ė che io ho portato a termine il mio dovere, ciò che ci si aspettava da me, ciò che ho sempre dato per scontato, fin da quando avevo sei anni. Era ovvio che dovessi laurearmi ed è inaccettabile che io sia fuori corso, senza neanche poter giustificare questo ritardo con un risultato che valga la pena di essere raccontato.

Allora l’alternativa è non festeggiare affatto e lasciare che questo momento importante della mia vita passi inosservato, sussurrato o tra parentesi. Lasciare che sia un giorno come tanti altri, in cui ho portato a termine una commissione, un servizio. Passa a prendere il latte, paga la bolletta che è già scaduta, laureati e mi raccomando stendi il bucato che la lavatrice è di ieri sera. Non mi sta bene.

Allora la verità sta nel mezzo.

E la verità è che questi quattro anni sono stati incredibili.

Sono andata via di casa, ho convissuto, ho incontrato tantissime persone e viaggiato senza tregua, ho studiato e cucinato, fatto il bucato e traslocato quattro volte. Ho cambiato amici, ragazzi, lenzuola e città. Ho lottato contro l’università e i miei genitori, ho affrontato le immense differenze e gli scontri con mia madre, la depressione di mio padre e i suoi silenzi. Le perdite e le conquiste. La notte incredibile in cui mi sono liberata e sono scappata dalla mia rosa, quando ho incontrato le persone meravigliose che oggi sono la mia rete di sicurezza. Ho chiuso il cerchio del mio drago e lui, esalando l’ultimo respiro della nostra battaglia, mi ha mostrato dei compagni di viaggio straordinari, che sono lontani dalle mie braccia quanto vicini al mio cuore. Poi alla fine, quando ancora una volta avevo strutturato un piano e vedevo una strada, tutto è cambiato di nuovo. Tutto ha preso la giusta dimensione e finalmente, dopo immense peregrinazioni, sono tornata a casa.

Resterò a casa.

Allora il senso è forse questo?

Non prenderò il massimo che avrei potuto. Non sarò perfetta. Forse non sarò neanche laureata questo luglio, chi può saperlo ora? Ho sempre pensato che il terrore e la meraviglia di ciò che accadrà sta proprio nel non poterne conoscere le forme o le sfumature. Io non so cosa sarò e non so nemmeno quando, però, in fondo, sti cazzi.

Perché la strada è stata incredibile e continuerà ad esserlo, perché a 23 anni posso raccontare cose straordinarie e non aspetto altro che vivere altre esperienze e assaporare e provare e rischiare. Laurearmi, certo, e magari fare anche una festa. Per scattare una bella foto e tenerla accanto alla scrivania per ricordare, ogni giorno negli anni che verranno, che questo periodo è stato totalmente di merda, ma che tutto il resto della vita è sempre incredibile. Che il voto della mia laurea non definirà mai la persona che sono, né tanto meno la media degli esami potrà valutare la mia passione.

Un giorno, non so ancora quando, avrò una pergamena incorniciata che mi guarderà mentre continuerò a studiare, con il mio nome inciso in caratteri dorati e un paio di mutande rosa con un fiorellino appese sopra.

Ma tutto questo dolore, questa frustrazione, la mancata felicità e l’assenza di orgoglio, sono solo legate a ciò che mi è stato detto di essere, mai a ciò che sono realmente.

Io sono il mio voto mediocre, la mia storia e i miei viaggi, la mia risata e i miei libri. La mia passione per ciò che ho studiato fino ad oggi e l’energia con cui continuerò a lottare per ciò che amo. Sono il mare che ho scelto di continuare a guardare, le pizze con mia zia quando tutto va troppo storto e le risate del tardo pomeriggio della domenica, da Stairs, con le mie amiche. 

Sono tutto questo e ogni giorno sarò qualcosa di più.
Però, nel frattempo, mentre guardo alle aspettative, alle pressioni e a ciò sarebbe dovuto essere, cerco di concentrare le mie energie mentali verso l’unico mantra che abbia una qualche minima efficacia:

sticazzi. 

In cuffia Mr. Brightside – The Killers , fino a farmi sanguinare le orecchie.

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