Tre settimane – Tachicardia

IMG_20181122_103305
Quando ero piccola e naturalmente venivo interrogata su cosa avrei voluto fare da grande, io davvero non ne avevo la più pallida idea. Sapevo che avrei voluto aiutare gli altri o comunque fare qualcosa di buono, che avrebbe reso felice la maggior parte delle persone possibile.

Ma non esisteva un nome per tutto questo, una definizione. Solo una cosa poteva dirsi certa: l’università. Non una nello specifico, si intende. Ma sicuramente una, tra le tante. A sei anni avrei potuto dire con totale certezza che avrei frequentato l’università un giorno.

Poi sono cresciuta e le domande sul mio futuro sono aumentate: cosa farò da grande? Chi riuscirò a diventare? Mi sposerò? Avrò dei figli e una famiglia? Dove vivrò? Non ho mai saputo rispondere a nessuna di queste e ogni volta che ho creduto di poter prendere una decisione, poco dopo tutto è cambiato di nuovo. Non sono mai stata in grado di creare alcuna proiezione a cui potessi restare fedele, ma suppongo sia normale: parte integrante del dramma di crescere. Tranne una forte, costante, tenace certezza: l’università.

Alla fine, quando è arrivata l’età giusta, mi sono iscritta davvero all’università. Era il 2015 e ormai sono passati quattro anni da quell’ottobre in cui tutto cambiò. Fu il primo anno universitario, la prima volta che me ne andai di casa, l’inizio della vita che avevo aspettato. E adesso, forse, sta volgendo al termine.

Ho deciso di scrivere cosa mi sta accadendo in questi giorni in modo da poterlo sublimare in qualcosa di esterno da me stessa, di freddo e distante. Ma anche per poter ricordare, finché ne avrò bisogno, tutto il dolore che sento dentro ora. 

Tra tre settimane dovrei riuscire a laurearmi ma non posso considerare questo evento come una certezza, perché davanti a me, a distanza di una settimana l’uno dall’altro, ci sono ancora due esami orali, conclusione di due rispettive prove scritte che ho già superato. E anche se a tutti gli effetti suona come una piccolezza, un dettaglio da sistemare, mi sembra di star affogando tra miliardi di pagine, di appunti e programmi che non puntano a ridursi. Ovviamente mi rendo conto di quanto tutto questo sia irrazionale e poco pragmatico, ma sinceramente non me ne frega un cazzo. Questa è la mia ansia e le regole le decido io.

Ma questa ansia non è solo mia. Giugno e luglio sono per eccellenza i mesi più assurdi della vita di ogni studente, che si tratti di maturità, sessione estiva o laurea. Tutti sulla stessa barca, sì, ma navigando su un mare di pura merda.

Io questa traversata drammatica la sto vivendo a braccetto con una delle mie migliori amiche, fortunatamente. Anche se studiamo due cose completamente diverse, in due lingue diametralmente opposte, non importa. Ci guardiamo, occhi negli occhi, occhiaie nelle occhiaie, e ripetiamo ad alta voce come treni merci che sfrecciano, fischiando in faccia a chicchessia. Senza freni, senza timori, senza speranze.

La scena non è poi molto diversa dal setting di Ragazze Interrotte: camera bianca, pareti bianche, tavolo bianco, facce bianche. Due giovani donne, vorrei dire Winona e Angelina ma, dai, siamo seri. Davanti a noi a metà tra una scacchiera e un campo di battaglia, si dispiegano confusamente fogli, appunti, penne, disperazione.

La giornata tipo segue uno schema semplice ma efficace, frutto di attente riflessioni e analisi strategica: l’appuntamento è alle otto del mattino, il che comporta la sveglia alle sei e mezza. Una breve colazione a base di latte e caffè, ogni tanto i cornetti, se Susy non si mette storta, e una sigaretta. Poi la prima sessione, con pochissime pause, che possono comprendere: ultime parole immortali incise sulla mia pelle, sigarette, iastemme generiche, scrolling compulsivo e un consumo spasmodico di tutta una serie di sostanze, la cui assunzione in alti dosaggi dovrebbe essere vietata dai servizi sociali antidroga: una media di 5/6 tazzine di caffè, litri su litri di tè al limone che fa ruttare come un bidone di brioschi (e poi a noi piace solo quello alla pesca), un numero imprecisato di lattine di Red bull, che ti manda in botta come una crisi tourettica dopo che hai tirato cocaina. A questa serie di liquidi va sommata una pausa merenda che varia da panino maionese e wurstel o maionese e tonno, leggero, e un pranzo maggggico prodotto dalle deliziose manine della mia masta del panino, accompagnato da 20 minuti di episodio di Friends, che in sessione è l’unica via.

Questo stile di vita folle non può essere perpetrato per troppo tempo senza rischiare seri danni alla salute, ma è strettamente necessario in un momento del genere.

La vera domanda è: perché tutto questo? Perché il tempo è davvero poco e il lavoro sembra non terminare mai, l’ansia non permette ai polmoni di riempirsi completamente e i giorni passano uno dopo l’altro, inesorabilmente.

Questo non significa ovviamente che io non debba provarci, fino alla fine. Che ogni singolo respiro non sia dedicato alla mia lotta contro il tempo e contro i miei stessi limiti. 

Perché la verità è che il discorso di base torna sempre ai miei limiti, che non posso accettare in alcun modo, perché di peggio del fallimento, che è pur sempre una realtà da tenere in considerazione, c’è solo la mediocrità. La consapevolezza che in un mondo che muove verso l’ eccellenza, in cui ciò che mi è stato richiesto fin dai primi passi fosse l’impegno per la perfezione, rende il limite della mia mediocrità un dolore talmente acuto e profondo da impedire a me stessa il benché minimo senso di orgoglio o soddisfazione.

Festeggiare la propria laurea? Non mi è familiare come idea. Cosa mai dovrei festeggiare? Il punto ė che io ho portato a termine il mio dovere, ciò che ci si aspettava da me, ciò che ho sempre dato per scontato, fin da quando avevo sei anni. Era ovvio che dovessi laurearmi ed è inaccettabile che io sia fuori corso, senza neanche poter giustificare questo ritardo con un risultato che valga la pena di essere raccontato.

Allora l’alternativa è non festeggiare affatto e lasciare che questo momento importante della mia vita passi inosservato, sussurrato o tra parentesi. Lasciare che sia un giorno come tanti altri, in cui ho portato a termine una commissione, un servizio. Passa a prendere il latte, paga la bolletta che è già scaduta, laureati e mi raccomando stendi il bucato che la lavatrice è di ieri sera. Non mi sta bene.

Allora la verità sta nel mezzo.

E la verità è che questi quattro anni sono stati incredibili.

Sono andata via di casa, ho convissuto, ho incontrato tantissime persone e viaggiato senza tregua, ho studiato e cucinato, fatto il bucato e traslocato quattro volte. Ho cambiato amici, ragazzi, lenzuola e città. Ho lottato contro l’università e i miei genitori, ho affrontato le immense differenze e gli scontri con mia madre, la depressione di mio padre e i suoi silenzi. Le perdite e le conquiste. La notte incredibile in cui mi sono liberata e sono scappata dalla mia rosa, quando ho incontrato le persone meravigliose che oggi sono la mia rete di sicurezza. Ho chiuso il cerchio del mio drago e lui, esalando l’ultimo respiro della nostra battaglia, mi ha mostrato dei compagni di viaggio straordinari, che sono lontani dalle mie braccia quanto vicini al mio cuore. Poi alla fine, quando ancora una volta avevo strutturato un piano e vedevo una strada, tutto è cambiato di nuovo. Tutto ha preso la giusta dimensione e finalmente, dopo immense peregrinazioni, sono tornata a casa.

Resterò a casa.

Allora il senso è forse questo?

Non prenderò il massimo che avrei potuto. Non sarò perfetta. Forse non sarò neanche laureata questo luglio, chi può saperlo ora? Ho sempre pensato che il terrore e la meraviglia di ciò che accadrà sta proprio nel non poterne conoscere le forme o le sfumature. Io non so cosa sarò e non so nemmeno quando, però, in fondo, sti cazzi.

Perché la strada è stata incredibile e continuerà ad esserlo, perché a 23 anni posso raccontare cose straordinarie e non aspetto altro che vivere altre esperienze e assaporare e provare e rischiare. Laurearmi, certo, e magari fare anche una festa. Per scattare una bella foto e tenerla accanto alla scrivania per ricordare, ogni giorno negli anni che verranno, che questo periodo è stato totalmente di merda, ma che tutto il resto della vita è sempre incredibile. Che il voto della mia laurea non definirà mai la persona che sono, né tanto meno la media degli esami potrà valutare la mia passione.

Un giorno, non so ancora quando, avrò una pergamena incorniciata che mi guarderà mentre continuerò a studiare, con il mio nome inciso in caratteri dorati e un paio di mutande rosa con un fiorellino appese sopra.

Ma tutto questo dolore, questa frustrazione, la mancata felicità e l’assenza di orgoglio, sono solo legate a ciò che mi è stato detto di essere, mai a ciò che sono realmente.

Io sono il mio voto mediocre, la mia storia e i miei viaggi, la mia risata e i miei libri. La mia passione per ciò che ho studiato fino ad oggi e l’energia con cui continuerò a lottare per ciò che amo. Sono il mare che ho scelto di continuare a guardare, le pizze con mia zia quando tutto va troppo storto e le risate del tardo pomeriggio della domenica, da Stairs, con le mie amiche. 

Sono tutto questo e ogni giorno sarò qualcosa di più.
Però, nel frattempo, mentre guardo alle aspettative, alle pressioni e a ciò sarebbe dovuto essere, cerco di concentrare le mie energie mentali verso l’unico mantra che abbia una qualche minima efficacia:

sticazzi. 

In cuffia Mr. Brightside – The Killers , fino a farmi sanguinare le orecchie.

Il Vento Caldo

IMG_20160812_193231073Una cosa che adoro è asciugarmi i capelli. O meglio, puntarmi il phon dritto sul collo e sentire quel flusso di aria rovente sulla pelle, sentire le goccioline che schizzano ovunque e tornare un momento bambina, come quando era la nonna ad occuparsi di questo noioso servizio. A volte ci sto per un sacco di tempo, molto più del necessario. Tengo il braccio fermo, i muscoli tesi e punto il diffusore dritto verso di me. Magari i capelli sono già asciutti, magari ci vuole ancora un po’. Non ne sono mai certa perchè quello che davvero mi interessa è il tepore, il vento caldo. L’abbraccio.

Quello è il momento in cui la mente vaga, quel vento porta con se miliardi di pensieri come in una tempesta di sabbia, come nel deserto. Non vedo più, non capisco dove mi trovo, non so dire precisamente cosa sia reale, cosa sia immaginario. Cosa sia un ricordo, cosa fantasia. Allora ripercorro momenti, attimi, respiri, mi perdo tra le mille immagini di questo vortice rovente e sento che tutto viene spazzato via e poi riportato a me, come se fossi al centro del ciclone, come se mi trovassi in un cinema, sola, a guardare la proiezione dei miei ricordi più preziosi.

Da un po’ di tempo a questa parte, mentre mi asciugo i capelli tornano alla mia mente alcune immagini precise, quasi come un sogno ricorrente. Qualcosa che è accaduto ma di cui posso soltanto accarezzare le sfumature, le ombre.

Da un po’ di tempo a questa parte, mentre mi asciugo i capelli, insieme alle immagini si pone nella mia mente una domanda tremenda, che prende forma solo perchè ciò che ho davanti a me non trova alcuna spiegazione, allora rifletto me stessa in ciò che vedo, raccolgo quello che mi sembra reale, che sento sulla mia stessa pelle.

Ricordo gli abbracci, quelli intensi, quelli che mi sono rimasti addosso, tutti determinati da uno specifico calore. Torno a quel giorno tremendo, vedo me stessa sola, in mezzo a tantissima gente che cammina, fuggono nella stessa direzione, un’onda di esseri umani si riversa al di là dei cancelli ed anche se si contavano quasi trentamila ragazzi, ricordo di aver visto te. In piedi. A fissarmi. Anche se erano passati mesi e mesi dall’ultima volta che con disprezzo avevo giurato di non fidarmi mai più dei tuoi occhi, li trovai lì a fissarmi, in mezzo a chiunque altro, mentre tutti facevano a meno della mia esistenza, tu mi avevi trovato. Ricordo di esserti corsa incontro perchè ero arrabbiata, perchè erano successe tante cose ingiuste, a me, a te, a tutti gli altri. Ricordo il nostro abbraccio perchè tu mi stringevi forte, il più possibile, per evitare i miei pugni e le mie lacrime. Mi chiedevi scusa, anche se quel giorno non fu colpa tua, non eri l’artefice di nulla di specifico, se non di essere lì davanti a me a lasciarmi soffrire ancora. Mi chiedesti scusa per tutto ciò che era stato prima di quel giorno e per tutto il male ricevuto ingiustamente, perchè eravamo solo dei bambini e questo non era colpa di nessuno.

Poi il vento soffia ancora, si porta via questo dolore, tanto acuto quanto impresso in una memoria passata, in una vita che non sembra nemmeno più appartenermi. La scena cambia. Taglio, nero.

Arriva un altro giorno maledetto. Il giorno della mia liberazione. Il giorno in cui sono cresciuta di più. In cui tutti erano spettatori, un pubblico silenzioso, che assisteva allo strazio della mia partenza, del mio abbandono, della mia libertà. All’abbraccio che non avrei mai desiderato e dal quale volevo fuggire, a quel peso su di me, abbandonato e senza forze, di un’anima distrutta dai propri errori, dal dolore di chi vuole bene nel modo sbagliato. Dalle mani forti di una madre che mi liberò di un grande peso, sapendo che la forza di una ragazza che si alza in piedi e smentisce il silenzio vale più della costernazione di una madre. Ricordo nel profondo del mio cuore il disgusto che provai in quella stretta senza amore, in quel soffocare disperato da cui ancora una volta mi liberai stringendo i denti e affondando le unghie sulla mia vita.

Ma ancora con un brivido misto di inquietudine e disgusto, la scena cambia. Dissolvenza.

Trovo altre braccia intorno al mio corpo, stavolta sento dolore. Qualcosa che brucia, sulla pelle ma anche dentro, sotto. Una sensazione di forte spaesamento, come uno schiaffo, forte, dritto sul viso, ma al buio, senza un mittente. Il baratro tremendo che squarcia uno scenario familiare, che mi lasciò a vagare in un buio spettrale, inaspettato. Un abbraccio che tradiva la più orribile delle emozioni: il rimpianto. Per un gesto avvenuto troppo in fretta, per ciò che è il tradimento della fiducia più profonda, per qualcosa che nei miei occhi da quel giorno non è più andato via: tra tutti, non credevo che saresti stato tu, a lasciare segni sul mio corpo, a togliere dal mio cuore ogni traccia di sicurezza. Tu, per cui sono sempre stata il primo fiore, come hai potuto dimenticare, anche se per un solo istante di follia, cosa stessi stringendo troppo forte. Tu che sei stato fin dall’inizio il mio porto sicuro, come ti sei nascosto dietro questa maschera fino ad ora.

Questo ricordo fa male, troppo male. Brucia come il primo giorno, sento la pelle sfrigolare e allora agito un po’ il braccio, illudendomi che sia il calore elettrico ad incendiarmi. Deglutisco, torno nel mio turbine, il film continua, la scena è cambiata.

Il calore cambia, stavolta allevia. Colpisce ancora una volta il mio viso, ma con gentilezza. Sento con precisione un dolore acuto, ma dolce allo stesso tempo. Si dice che se un albero cade in una foresta vuota, non è certo che sia davvero accaduto. Allora se le tue braccia mi hanno stretta quando nessuno poteva vederci, quando nemmeno io riuscivo a distinguere la tua figura, posso essere certa che sia accaduto davvero? Ricordo precisamente il tempo, infinito, in cui nel silenzio della notte l’unico rumore, impercettibile ed assordante allo stesso tempo, era il mio cuore impazzito, per cui una parola in più o in meno, poteva significare la differenza tra respirare o soffocare. L’attesa insopportabile di una qualche minima reazione. L’angoscia che ciò poteva anche non accadere. Il dubbio di aver precluso qualcosa di incredibilmente bello al mio cuore, per amore di una sincerità viziata dalla sofferenza. Eppure qualcosa indietro tornò. Un abbraccio silenzioso, al buio. Intenso, intimo e duraturo. Un messaggio semplice ma universale: ti tengo, a modo mio, ma ti tengo stretta.

Quanto è dolce ed amara la nostalgia, quanti sorrisi a metà, che oscillano tra la leggerezza di aver agito per il bene, a prescindere da se stessi, e il sapere che la sincerità ferisce più di una bugia bianca, ma ti lascia sopravvivere. Mi mordo il labbro, perchè sorridere ancora è faticoso. Stacco, buio. Una luce rosa.

Questa scena resta davanti ai miei occhi, la guardo riavvolgersi su se stessa, come una pellicola che gira e gira e gira. Vorrei entrarci di nuovo, essere coinvolta come quando ne fui la prima attrice. Ma questo non è possibile, per via dell’esistenza dei ricordi, che trafiggono proteggendoti, come un film dell’orrore, che accende in te un fuoco tremendo senza che tu soffra alcuna bruciatura, un’illusione. Ti vedo nitidamente, nella tua straordinaria fragilità. Credo di non aver mai visto un essere umano così teneramente piccolo, mentre raccogli te stesso in un bozzolo, nella speranza che qualunque cosa ci sia fuori, non potrà più colpirti tanto forte. Eppure, anche se per un solo giorno, vale la pena di diventar farfalla, per quanto terrificante e doloroso, per quanto tu sappia benissimo come finirà questo film, guardarlo è l’unico motivo per lasciare al tuo cuore un altro battito. Vorrei mostrarlo anche a te, stringendoti come faccio, quando posso.Vorrei portarti fuori da questo guscio e fare in modo che il vento ti soffi contro più forte che può, che le onde si infrangano contro il tuo corpo con il desiderio di distruggerti e che tu sia libero di farti del male, pur di vivere, anche solo per un giorno. Sentivo un peso leggero su di me, che avrei potuto sollevare senza problemi, ma una morsa tenace, dettata da una necessità intima e segreta: stringimi. Lo farò, ogni volta che mi sarà possibile, fino a che avrai bisogno di me, ma poi, inevitabilmente, diventerò farfalla per te e giacerò ai tuoi piedi.

Una lacrima, per un finale già scritto, di un film che conosco e che ho ancora voglia di guardare. Cambia scenografia, cambiano le luci.

Questo lo riconosco, perchè è una scena che rivedo spesso. Perchè tu ci sei, puntualmente. Sei al capo dei binari, sullo sgabello accanto a me mentre divago su tutta una serie di paturnie tra l’ultima birra e quella di troppo, sei lì quando mi passi una sigaretta nel momento perfetto, quando sorridi e mi abbracci forte perchè sai che qualcuno deve tenere insieme tutti i miei pezzi, prima che cada di nuovo in terra, frantumandomi. Ci sei stato quando non potevo alzarmi dal letto, quando non volevo e quando avrei preferito la solitudine piuttosto che affrontare ancora il mondo. Ci sei da meno tempo di quanto sembri al mio cuore, ma ci sei e basta. Un abbraccio caldo, forte, un porto sicuro, in cui posso sentirmi a casa, anche quando di questa sento la nostalgia, perchè di casa sento sempre un po’ la nostalgia.

Nostalgia dell’abbraccio primigenio, del primo contatto con te che ogni volta mi accogli, mi aspetti pazientemente: attendi che io percorra la mia strada, che commetta i miei errori, che vaghi per il mondo, allungando le distanze, perchè sai fin nel profondo, che tra le pochissime certezze che questa vita ha riservato a persone come noi, io tornerò sempre da te. Che sei l’origine di tutto. La persona che il destino ha mandato per completare il mio essere, l’abbraccio primo e ultimo. La composizione ideale, l’incastro tra me e te, in quel lettino singolo, in cui ci stiamo anche larghe.

Allora mi chiedo a cosa io stia pensando davvero, a quale sia il senso di tutta questa bufera di emozioni. Alla tempesta di sabbia che mi confonde i pensieri e i ricordi. Perchè accade tutto ciò? Perchè non è possibile che sia altrimenti. Perchè fare pace con ciò che è stato è necessario affinchè tu possa abbracciare te stesso, oggi. Allora tra le mille braccia che mi hanno stretto, tra quelle che mi stringeranno, è importante tenere ben presente che le uniche con cui devo essere in armonia sono quelle attaccate al mio corpo.

Eppure la mia domanda è ancora lì, a girare e rigirare nella mia mente, saltando tra i ricordi e scivolando nel vortice delle emozioni: Perchè gli abbracci più importanti della mia vita, che in assoluto contano più di qualunque altro contatto umano, li ho ricevuti da persone che non mi hanno mai amata? Più mi arrovello su questa idea e più una risposta mi sembra impossibile da raggiungere. Dovrò aspettare che le cose accadano, decriptare i codici della vita nella speranza di poter dare un’interpretazione a questi dubbi. Trovare una risposta è pura illusione.

Spengo il phon, i capelli sono asciutti. Lo sono già da un po’. C’è un motivo se li ho tagliati.

Il suono del fulmine

IMG_20180716_035846_HHTI temporali mi piacciono un sacco, soprattutto perchè non mi sento al sicuro. Quando piove forte forte penso sempre che potrebbe succedere qualcosa di terribile, che il tetto di casa potrebbe volare via o un albero cadermi addosso da un momento all’altro. Penso a quale calamità naturale possa intervenire per stroncare la mia vita in un secondo, senza una particolare giustificazione razionale. Allo stesso tempo, mentre questa ansia paranoica mi toglie il fiato, penso che adoro il temporale. Perchè fa rumore, confusione, porta caos e distruzione con la forza del vento e dell’acqua. Dimostra una potenza inarrestabile e mi fa sentire sicura: non esiste in quell’istante niente di più forte, di più distruttivo. Attingo alla sua forza con la falsa convinzione di poter essere anche io un temporale.

Nel temporale ci sono tre cose che mi scuotono il cuore: la luce soffusa, che si scontra fortemente con il grigiore delle nuvole. Per quanto tutta l’atmosfera sia più oscura rispetto ad una banale giornata di sole, quella luce grigia penetra ovunque, rende la penombra uno spazio denso in cui nascondersi, che un po’ ti mostra e un po’ si prende la briga di tenerti al riparo da tutto, da tutti. Dopo la luce, c’è il tuono: ciò che temo di più. Perchè il tuono fa rumore, quando meno te lo aspetti. È ovvio, se ci dovesse essere un lampo, poco dopo seguirebbe un tuono, eppure non sai mai precisamente quando possa arrivare. Arriva quando arriva, quando deve essere. E urla forte, da lasciarti impietrito, senza parole. Quando urla un tuono stanno tutti subito zitti. È come l’inizio di un gran concerto, tutti battono le mani e scrosciano come il suono della pioggia che batte sul mondo, goccia dopo goccia, mano contro mano. Aspettano che arrivi la rock star e quella arriva, sale sul palco coperta da una coltre di fumo grigio, non puoi vederla. Si nasconde tra le luci e quando è il momento, quando il faro corre veloce sul palco, afferra il microfono e urla forte, più forte che può. Ti gela il cuore e tutto ha inizio. Questo è un tuono.

Ma non è nemmeno questa la mia parte preferita, quella è la terza. Ciò che non può essere spiegato perchè in realtà è qualcosa che non esiste, che non è reale. Quando un fulmine cade sulla terra, quando scarica tutta la sua forza distruttiva sul suolo come una mortale scossa elettrica, qualcosa nel vento si rompe e c’è un rumore. Non è il tuono, quello arriva dopo ed è una conseguenza.

Il suono del fulmine è qualcosa di diverso, che non senti precisamente con le orecchie, eppure lo percepisci all’altezza dello stomaco. Quando un fulmine è troppo vicino e si scontra potente contro la terra, tu senti la scossa sbatterti in faccia, senti l’energia che ti colpisce forte, ma soprattutto c’è un suono, un sibilo frastornante, una rottura nel vento, uno squarcio che blocca il tempo. È qualcosa di estremamente specifico, che non sono in grado di spiegare con le giuste parole, ma sono fermamente convinta che chi ha attraversato almeno una volta questa esperienza possa capire perfettamente di cosa io stia parlando. Il suono del fulmine è la mia parte preferita perchè mi è capitato spesso, guardando un temporale, spaventata e affascinata, di essere colpita in pieno da quella energia. Eppure di recente ho scoperto che c’è qualcosa di molto simile ed altrettanto sconvolgente che può capitare. Ho sentito un fulmine, quel suono specifico, quell’energia distruttiva, un giorno in cui non c’erano nuvole in cielo. Un giorno limpido e caldo. Un giorno in cui non pensavo che la vita potesse tirarmi uno scherzo del genere, come se camminando in spiaggia un bambino ti lanciasse una palla di neve, per gioco.

Il mio suono del fulmine mi ha colpito in faccia, quando ai temporali così non davo più la benchè minima speranza, anzi quando di speranza non ne avrei data neanche a me stessa, perchè continuavo felicemente a lasciare che un vento qualunque gonfiasse le mie vele, portandomi ovunque, dove non mi interessava guardare, conoscere o avere a cuore qualcosa.

È stato un temporale strano, quello senza pioggia né nuvole. Perchè è chiaro, non sono certo l’unica al mondo ad aver visto una cosa così, non sono una mistica e di certo non ho le allucinazioni. Non sono pazza, se è questo che ti stai domandando. Non so cosa sono, perchè queste parole non le conosco così bene da poterle già usare: il vocabolario sentimentale non fa parte di una lingua che conosco per cui cerco con questa infelice traduzione di trasmettere quanta confusione ci sia ora nella mia testa. Quanti venti stiano soffiando, forti e caotici, in ogni direzione.

Avrei voluto trovare parole gentili, dolci. Quelle del cuore. Che usano i ragazzi che si amano, come vorrebbe Prevert. Ma queste parole non le so usare, quindi provo con quelle che conosco. Parlerò del mio suono del fulmine e di quanto tutto questo abbia cambiato ogni cosa.

Un secondo prima di tutto ero perfettamente inconsapevole di cosa mi stesse accadendo, proprio perchè non ne avevo alcuna idea precisa. Non c’era un interesse a spingere la mia mente verso qualcosa, forse solo impegnare ogni singolo ragionamento in impegni inutili ma densi, gonfi, che occupassero quanto più spazio possibile. E poi le serate infinite, le persone senza nome incontrate per strada. Una serie lunghissima di impegni irreali e poco importanti, atti a ciò di cui avevo realmente bisogno: non pensare a nulla di importante, perchè non ne avevo davvero la forza.

Eppure non ero per niente stanca di correre. Avrei potuto continuare per sempre, verso una direzione mai ben specifica. Correre e correre e correre. Perchè chi si ferma è perduto, ma non come lo intendono tutti, non avevo paura dell’apatia o della depressione, temevo il tempo morto in cui puoi pensare, in cui il tuo sguardo cade irrimediabilmente sullo specchio delle brame che hai nella testa, quello che non ti risponde che sei la più bella del reame, per niente, io parlo di quello con la vocina bastarda, che rimarca tutto ciò che tu sai già molto bene, quella vocina forte ed insistente. Quella che sa perfettamente cosa dire per farti male.

Avrei continuato a correre per sempre, se me lo avessi chiesto in quel momento. Non c’era una alternativa abbastanza valida e mi stava davvero bene così, perchè correre mi piace. Però come al solito non avevo tenuto conto di quanto le cose decidano di cambiare nell’esatto istante in cui pensi di aver intrapreso un progetto, di poter perseguire un piano così come lo avevi prestabilito.

Fu così che sentii il suono del fulmine, in un giorno senza nuvole. Non so dire precisamente che giorno fosse, non so mai precisamente che giorno sia. Però non lo dimenticherò perchè gli orologi si fermarono e il mio cuore saltò un battito.

So che non è facile da credere, che la razionalità vuole che tutto ciò non sia reale, che si tratta sempre di vivere la vita con troppa foga ma io vorrei davvero che qualcuno capisse cosa vuol dire avere sulla pelle quel freddo bollente che ti blocca il fiato, quando un fulmine ti cade dritto sulla testa. Vorrei solo che fosse possibile per me spiegare quanto tutto questo sia reale, quanto sia felice di aver smesso di correre. Di essere stata arrestata in quell’istante da questa energia sconvolgente. Non esistono le parole giuste per raccontare la felicità, perchè è la cosa più difficile che abbia mai dovuto spiegare, si tratta di qualcosa che non conosco abbastanza e non trovo il modo per poterla sbattere violentemente nel cuore delle persone, così come violentemente è entrata nel mio. Ma non si tratta neanche solo di questo, non c’entra il cuore come punto nevralgico di una tradizione a cui siamo abituati dai grandi poeti, io parlo anche di brividi e pelle infuocata, delle mie mani che non smettono mai di tremare, delle lacrime che non so trattenere perchè è tutto orribilmente intenso e mi fa paura. Delle ginocchia che non reggono il peso di queste emozioni, dello stomaco che non ha più bisogno di altro che non sia l’aria che butto giù ad ogni sospiro, dei polmoni che finalmente si riempiono completamente, ma più di ogni altra cosa di questa instancabile forza che ho scoperto di avere nel continuare a sorridere, così tanto e così spesso che non pensavo fosse possibile.

Dicono tutti che qualcosa in me è cambiato da quando questa radiazione mi ha colpito, che sono una persona diversa rispetto a qualche mese fa. Non so se sia vero, perchè mi sento più me stessa ora di quanto lo sia mai stata negli ultimi anni, nel senso più libero che possa intendere. Eppure so che questo fulmine mi ha spinto tanto verso la persona che so di dover diventare, anche se la strada da percorrere non è semplice e di certo non sarà breve.

Perchè quando il fulmine ti colpisce dritto in testa qualche effetto collaterale te lo porti dietro, non può essere solo brividi. Questo effetto l’ho iniziato a sentire tempo dopo, perchè lì per lì mi credevo una persona più forte e meno spaventata. Ma sbagliavo. È proprio la paura che adesso mi incatena al terreno, quando so perfettamente che anche volare sarebbe pericoloso. Non si tratta di incoerenza o paranoia, non si tratta delle mie stupide ansie, anche se qualcuno penserebbe di si. Questa paura è tanto grossa quanto pesante e la vedo, come una sorta di elefante africano, che mi fissa dalla sua serafica e tranquilla posa. È seria, imperturbabile, tronfia a volte perchè consapevole della sua forza. La paura ti blocca, ti chiude gli occhi e rende tutto nero. Ma allo stesso tempo penso di aver capito due cose importanti, che stanno un po’ al centro tra la verità e quello che mi piace raccontarmi quando non ho voglia di affrontare la realtà dei fatti: La prima è che la paura non serve a vivere, perchè ogni istante speso ad avere paura ruba quanto avresti potuto apprezzare la vita in quel momento, toglie qualcosa che poteva essere bello e tuo per sempre e per quanto tu possa essere generoso, la paura non merita questi regali. La seconda è che senza paura non è una vera vita, che essere sveglio e senza paura è uno scopo, una strada da perseguire, ma non può essere la condizione costante in cui vivere, è giusto anche avere un po’ di paura, perchè solo sentendo quel brivido ghiacciato puoi ottenere la giusta dose di adrenalina per affrontarlo. Se sei dietro al divano e davanti a te c’è il tavolino da caffè su cui fare tana, tu corri forte, perchè devi salvarti senza essere visto e sai, nel profondo di quel click che all’altezza della bocca dello stomaco ti fa muovere le gambe più veloce che puoi, che sapere di poter fare tana libera tutti è più gustoso se chi ti cerca si è appena voltato, ma è proprio lì davanti a te. Io voglio fare tana libera tutti, per me e per il suono del fulmine, ma voglio farlo davanti alle mie paure, perchè ci sono e non guardarle toglie il gusto. Non posso dire che le stia affrontando, perchè non è esattamente così, con loro cado nell’ambito dell’irrazionale e lì nulla ha più la stessa forma di sempre. Un po’ sarò in grado di vincerle, di arrivare a fare tana libera tutti, e un po’ le terrò lì accanto a me, abbastanza distratte da permettermi di vincere ma altrettanto presenti da rendere tutto più reale ed intenso. La verità, ancora una volta, sta nel mezzo.

L’unica cosa che non mi soddisfa di tutto questo è che non ho usato le parole giuste, come al solito mi trovo a dover raccontare qualcosa nero su bianco, perchè non conosco altre strade. Non ho detto ciò che intendevo dire, non ho raccontato nulla di reale ma un giorno, quando sarò abbastanza grande, spero di poter sciogliere ogni parola negli occhi di chin merita di sapere la verità. Perchè purtroppo mi trovo irrimediabilmente sotto questo temporale e non smette più di piovere e io sono tutta bagnata ma incredibilmente felice, spaventata dai tuoni ma anche pronta per affrontarli. Vorrei dirti tutto, ma davvero non so come fare, perchè non sono mai riuscita a trovare un momento giusto, per fare qualcosa di giusto, nel posto giusto e con la persona giusta. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo mio essere fatta così, lo so, di nuovo o zero o cento, o tutto qui, tra queste solite tre pagine, o tutto urlato in faccia nel modo più contorto e sconclusionato possibile. Non so cosa fare, tranne guardarti negli occhi e sperare di pensarlo talmente forte da potertelo far sentire, vorrei che senza dire una parola mi dicessi che hai capito, che va bene così, che sono cose mie e non fa niente. Perchè mi sta scoppiando il cuore e resto muta, come un pesce rosso.

Il Treno

IMG_20181013_063907Ho sempre pensato di essere una ragazza da treno, fondamentalmente perchè ci ho passato parecchio tempo sopra. Mi sono convinta che fosse una sorta di destino, per un motivo o per un altro, dover sempre stare lì a controllare orari, cercare coincidenze, comprare biglietti. Ho preso treni che tagliavano di netto le regioni, gli stati o che mi hanno portato in giro per tutta l’Europa. Per questo motivo ho scoperto anche che esiste una sorta di accordo nell’Unione, per cui tutte le stazioni portano la stessa insegna blu con scritta bianca, stesso font, stessa dimensione. Non so perchè ma in un certo senso così si somigliano tutte e allo stesso tempo sono tutte diverse. Ho preso treni per andare ovunque. In compagnia, in solitudine. Negli anni ho capito molte cose grazie a questi viaggi, sia su me stessa che su tutto ciò che mi sta intorno, perchè chi prende i treni lo sa quante cose capisci, quando stai lì seduto a pensare. È come se fosse stato creato proprio per questo, una sorta di intervallo spazio\temporale in cui ti siedi comodo, metti su un po’ di musica, guardi come cambia il mondo intorno a te, lentamente, e lasci scorrere un flusso ininterrotto di parole che sfuggono.

Ho capito un sacco di cose sui treni. Ma non solo. Ho parlato tanto, con tante persone mai più viste, ho condiviso biscotti, caricabatterie, chiacchiere e lamenti. Ho visto bambini piangere, ragazze piangere, ho pianto io. Ho imparato ad ascoltare la voce degli altri, la vita degli altri. Ognuno sul treno sta andando da qualche parte, no? Ho imparato che non è sempre vero: c’è chi va, ma anche chi si allontana.

Ho preso molti treni, alcuni perchè stavo davvero andando in un posto, altri perchè provavo solo a fuggire. Ci sono state volte in cui sapevo di trovare qualcuno al capo del binario, altre in cui non lo sapevo eppure qualcuno c’era, che poi sono le volte più belle. Ci sono state volte in cui non c’era nessuno, come è naturale che sia. Eppure non c’è mai stata volta in cui non mi sia guardata intorno, pur non avendone motivo, nella speranza di trovare proprio chi lì non ci sarebbe dovuto essere. Quasi sempre non c’era nessuno.

Ma ho anche lasciato tante persone al capo del binario, chi con un abbraccio, molti in mezzo a tante lacrime. Ma quanto è bello quando poco prima di salire quei tre scalini ti giri e vedi l’ultima lacrima. Quanto è bello piangere sui binari stringendo qualcuno. Quanto è bello piangere sui binari pensando che qualcuno lo vorresti stringere forte. E invece ci sei solo tu, la tua musica assordante, una sigaretta e tanti passanti, sconosciuti, che si chiedono come mai.

Mi sono sempre considerata una ragazza da treno perchè alla fine è un po’ come me: va piano, quello che mi posso permettere. Non corre e non si affanna ma prosegue inesorabilmente verso qualcosa, che poi non si sa mai bene cosa. A volte succede che si ferma, altre volte che rallenta, qualche volta deraglia. Ma adesso dopo un po’ di anni a fare su e giù da una stazione all’altra ho capito davvero cosa significa il treno.

Sono io il treno. Non è semplicemente come me. E’ me. Il treno funziona come funziono io. È presto per dirlo, lo so. Ma non voglio pensare a tutte le lezioni che devo ancora imparare. Mi piace pensare a quelle che conosco già. Il treno sono io perchè non mi piace andare di fretta. Sarà banale, me ne rendo conto. Ma anche io mi sono fermata in parecchie stazioni. Sono nata piccola, forse giusto la cabina del macchinista. Nemmeno. Ma piano piano si sono aggiunti i primi vagoni, uno dopo l’altro. E ne attendo ancora tanti, sia chiaro. Ma per adesso sono contenta, tutto sommato, di ciò che mi si è legato addosso. Ogni vagone è un pezzo separato, indipendente ma indissolubilmente collegato al precedente e al successivo. Sono fatta di pezzi, posso cadere in pezzi, posso tornare intera, ma mai unica.

Quello che mi piace del treno, che è come me, è anche il fatto che ci possono salire tutti, ma non lo fanno per forza. Chi sale sul treno vuole andare da qualche parte, ha bisogno di andarci. Chi sale su un treno magari non è presente alla prima stazione, lo trovi più avanti che aspetta al binario, ma aspetta quel treno e non un altro. Allora sale, si siede e si rilassa. Prende un pezzo della tua vita e ci si mette comodo. Ha pagato il biglietto e si gode il viaggio. Non è detto Per quanto, che sia per molto o per poco. Potrebbe scendere alla fermata successiva, a quella dopo, al capolinea. Il treno non lo sa, si ferma ad ogni stazione e attende i bisogni del passeggero, li anticipa o li suggerisce ma di certo non può evitarli.

Ci sono persone che sul treno ci sono salite per fare una tratta talmente breve che avrebbero potuto andare anche a piedi, secondo me. Eppure in quel momento avevano bisogno di aiuto, di supporto e di un mezzo. Allora il treno non si fa domande, raccoglie tutti. E prosegue.

Sono importanti quelli che ci restano per poche fermate? Non lo so. Sul mio treno ci sono saliti in tanti per starci poco. Qualcuno non so più che volto abbia, qualcun altro so esattamente dove era seduto. Senza aver prenotato, c’era già un sedile che aspettava e che per qualche strana ragione non ha potuto ospitare più nessun altro. Ma non era che un passeggero, sì. Eppure nessun altro ha avuto quella poltroncina e io sono troppo giovane per sapere il perchè.

Però ce ne sono alcuni davvero incredibili. Questi sono speciali, i miei preferiti, a cui non so mai cosa dire, che non sia grazie, ogni giorno. Sono quelli saliti alla prima stazione, biglietto alla mano e un buon libro davanti. Quelli che il biglietto lo hanno preso al prezzo più caro, per arrivare fino al capolinea. Mi stupiscono tutte le volte perchè sono incredibilmente rari, ma soprattutto instancabilmente pazienti. Il viaggio è lungo, sfiancante e a volte proprio lentissimo, ma a loro non importa perchè vogliono arrivare davvero fino alla fine. Non ne ho mai avuti molti di passeggeri così, come è normale che sia. Ci sono quelli che ci hanno provato ma si sono arresi, ad un certo punto. Così come ci sono quelli che stanno ancora lì seduti, a guardare dal finestrino quello strano paesaggio che muta, si contorce, cambia e ricambia senza senso. Sono sempre meravigliati, io lo vedo bene, ma guardano e guardano incuriositi. Quanto li amo, quelli che non si arrendono.

Come ogni treno che si rispetti anche io mi fermo spesso. Ogni luogo ha bisogno di un tempo, per chi scende e per chi sale. Per il rifornimento. Per varie ed eventuali. Per gli incidenti. Per i ritardi. Per i guasti. Ci sono stazioni che sembrano bloccare il treno per sempre. Ho avuto stazioni che sembrava potessi non ripartire mai. Passeggeri confusi, nervosi, annoiati. Eppure il treno riparte sempre, perchè deve pur andare da qualche parte.

La destinazione però è un tema complesso. Ogni treno ha la sua, questo è ovvio. Vorrei sapere se per me ne esiste una ma alla fine c’è bisogno anche di mantenere un briciolo di razionalità: la destinazione è la stessa per tutti. C’è un solo modo in cui possiamo finire e non mi rattrista ammetterlo, ogni treno prima o poi si ferma, spegne il motore e finisce in deposito. Così è la vita. Ma non mi capacito di pensare che sia tutto qui. Non ho intenzione di arrendermi al fatto che sia questa la mia unica destinazione. Magari è possibile che più che guardare al finale, che conosco già, sia necessario fare una somma, di ogni stazione. Che alla fine un macchinista ci deve essere e io credo fermamente che ci sia, al di là di me. Non sto guidando, non sto scegliendo. Sto seguendo i miei binari dovunque essi vadano. L’unica cosa che è in mio possesso sono le stazioni: sei tu che scegli dove fermarti, quando fermarti, perchè, per chi. E questo è parte del fatto che adoro essere il treno, ma non il macchinista. Forse è un po’ incosciente, forse un po’ naif, forse è solo paura. Suona vigliacco delegare la propria direzione ad un macchinista fantasma? Per qualcuno magari è così, ma secondo me si tratta di lasciare che tutto faccia il proprio corso. A me sta bene, non voglio guidare, altrimenti userei la macchina, ma io non sono una macchina. Io sto seduta e guardo fuori, ascolto la musica e penso. Penso e ripenso. Penso troppo, me lo dicono tutti.

Non lo so dove sto andando, non mi interessa e non ho intenzione di fare domande in merito. Che tanto chi vuoi che mi risponda. Voglio lasciare che il treno segua i suoi binari senza interferire. Perchè le cose belle capitano proprio mentre guardi fuori dal finestrino. Però apprezzo anche la libera scelta, in assoluto la cosa migliore che esista al mondo. Confido nel potere di decidere dove fermarmi. Certi posti odorano di casa, anche quando sei tanto lontano. Sono quei luoghi in cui ti senti tranquillo, protetto, nel posto in cui sai che niente di brutto possa accaderti, perchè sei al sicuro. Sono una bugiarda, lo so. Non si dice posti, si chiamano persone. Ma preferisco pensare a tante piccole città, da visitare, conoscere, in cui ambientarsi. Realtà ogni volta diverse, che regalano qualcosa di unico e irripetibile. Perchè anche se non serve dirlo a me piace farlo comunque: ci sono certi abbracci che sanno proprio di casa, di latte caldo e biscotti, di dolce e pulito, di porto sicuro. Sono le mie stazioni preferite e mi ci fermo ogni volta che posso. Sentirmi a casa è la mia principale dipendenza.

Ma il treno non si ferma mai per troppo tempo e chi non sale lo perde. Non sono d’accordo con chi dice che un treno debba passare solo una volta, non è sempre così. Certe volte capita, è naturale. Ma quanto sono belle le seconde opportunità? Non è una cosa a cui voglio rinunciare, perchè credo profondamente anche nel momento giusto e quello va atteso. Non si può affrettare e non si può creare. Deve essere il macchinista a guidarti lì, dove tutto è perfetto, così come deve essere. Per poi portarti di nuovo via, è ovvio.

Ho capito di essere io il treno e va bene così, è il mio posto nel mondo. Per tutte le volte che ci sono salita finalmente ho trovato la mia risposta. È il treno che è dentro di me, non il contrario.

Però vorrei tanto affiggere un cartello, in ogni vagone, che reciti così: “Cari passeggeri, benvenuti sul mio treno, benvenuti nel mio cuore. Siete pregati di restare fintanto che vi faccia piacere, ma poi di scendere subito, quando è il momento. Se siete qui è perchè avete lasciato un luogo con l’intenzione di raggiungerne un altro, avete lasciato qualcuno con l’intenzione di raggiungere qualcun altro. Proseguite, gentilmente, lungo i miei binari e le mie stazioni, ma non sperate di cambiare la mia destinazione. Deragliare non è un’opzione. Spero che il viaggio sia piacevole, ma spero anche che vi lasci per sempre qualcosa. Su ogni vagone è consentito fumare”.

Il lettone 29\12\2018

FB_IMG_1549574711141Non sono una persona che crede nei pianeti che si allineano o nelle direttive astrali dello zodiaco, non credo precisamente in nulla, ma vivo di una lunga serie di convinzioni illusorie che giustifico a seconda degli eventi. Per esempio, credo profondamente nel fatto che nulla accade per caso. Che due vite che si incrociano non sono semplicemente una coincidenza.

Oggi non sarei dovuta andare all’università, in generale, nello specifico invece di certo non sarei dovuta andare alla facoltà di lettere. Non è la mia sede, non è il mio dipartimento, non è la mia università. Eppure è capitato, nella forma di un amico con cui avevo voglia di passare un po’ di tempo, magari per studiare. Poi lo studio è diventato una sigaretta, poi una chiacchierata e poi XX.

XX è timida, tanto. Però inizia a parlare con me e mi racconta di questa mattina, mentre era al letto con qualcuno, ma poi suonano alla porta. Sorprendentemente dopo dieci mesi torna nella sua vita XY

XY è un ragazzo alto, magro e con i capelli molto lunghi e sta poggiato ad un muretto, solo. Non fuma, non guarda il cellulare, non fa niente di preciso. Pensa.

XX inizia a raccontarmi di questo incontro folle, con un ragazzo trovato per strada accanto ad un cartello: “Sono un viaggiatore, cerco un posto in cui dormire”. Un viandante, un girovago, un ramingo.

La mia indole può essere sintetizzata nell’espressione “una vorace e insaziabile curiosità”, per cui la storia mi piace, mi sfizia, mi diverte. Possibile mai che un ragazzo così normale, dove normale non rispecchia assolutamente ciò che intendo dire, ma è la categoria prediletta per intendere chi non appare in alcun modo bizzarro, sia proprio il viaggiatore del cartello?

Inizio a parlare con XY: ha buone maniere, gli occhi molto dolci e gentili, un accento inglese stretto e duro, anche se deve passare prima per un sorriso grande.

XY ha 21 anni, uno meno di me, non è uno studente, non è un lavoratore, è qualcosa che non conosco: un viaggiatore. All’età di 20 anni è partito, con il suo zaino e ha deciso di camminare, ovunque fosse possibile, ovunque. Da due anni vaga e ha girato quasi tutta l’Europa, ma ora qui. Vuole continuare a scendere, prendere il suo kayak, che ora ha lasciato temporaneamente e poi vuole arrivare, remando remando, in Africa.

Gli dico che è impossibile, che ci vuole troppo tempo, che c’è troppo spazio. Mi risponde che ci vogliono nella migliore delle ipotesi 24 ore, che ci vuole molto impegno, che è molto spazio, ma che non è impossibile.

Gli chiedo se ha paura di morire, mi risponde di no. Se dovesse morire, avrebbe comunque vissuto quanto ha potuto nel modo che ritiene più giusto, perchè lui sta cercando qualcosa. Sta cercando un senso, una risposta, nei posti più remoti del mondo, ma anche in quelli più centrali, ovunque si possa nascondere, questo senso di tutto, lui lo troverà.

XY vuole fare il film maker, ma non nelle accademie di cinema. Non gli interessa imparare a riconoscere un’inquadratura o conoscere i termini tecnici. Lui vuole avere l’occhio. Sta creando, tramite le sue esperienze, un modo per guardare la vita che sia unico, che gli dia la possibilità di trasformare la sua stessa mente in una telecamera, di vedere il suo film, prima di realizzarlo.

Gli chiedo dei suoi genitori, della sua famiglia, se ne sente la mancanza, se sono in contatto in qualche modo e anche di come andò via. Risponde che non gli importa più di tanto, come non gli interessa molto di se stesso, d’altronde. Quando può, ma raramente, invia delle email. Non racconta molto del suo passato, non gli appartiene, lui guarda avanti, vive ciò che accade, non cosa è accaduto, non cosa accadrà. E non ha bisogno di raccontarlo a nessuno.

Un giorno, dopo un viaggio a Parigi, XY ha capito che ciò di cui aveva davvero bisogno era di cambiare prospettiva, di cercare un senso per le cose, di guardare più che di vedere, di vivere sul serio. Di abbracciare la vita com’è, consapevolmente. Per questo è tornato a casa, anche se in realtà, era già andato via. Mi dice questo: era andato via mentre tornava a casa da Parigi e da lì in poi è bastato solo prendere il necessario e continuare a camminare.

Gli chiedo cosa porta nello zaino, risponde cibo, acqua, un coltello da cucina, vestiti e poche altre cose utili alla sopravvivenza. Gli chiedo come sopravvive, come mangia, dove dorme, come fa.

Risponde che lavora dove può e come può, in cambio di cibo e un posto in cui riposare, a volte chiede alle persone la premura di offrirgli un tetto, altre volte dorme per strada, persino sotto al suo kayak. Mangia come e quando può, è stato anche una settimana senza toccare cibo, ma mi svela un segreto: se non puoi bere per due giorni di fila, ti passa anche la fame.

Gli dico la cosa più banale del mondo: lui è qualcosa che sta a metà tra Alexander Supertramp e Jack Kerouac, perchè prima di lui queste storie erano possibili solo tra le pagine dei miei libri, tra i miei eroi personali. Ride, ha letto entrambi, devo aver detto una sciocchezza. Non importa, per me è un supertramp. Ma risponde che lui non vuole scappare dalla società, ha rifiutato i suoi genitori, ha rifiutato il denaro per pagare gli studi di economia, ha chiuso delle porte importanti, ma ha scelto di vivere una vita senza confini.

Gli dico che per me questa è la forma più profonda di libertà, mi risponde che per lui non è così, che anzi si sente tutto meno che libero. Non capisco. Non me lo spiega. Un giorno magari lo capirò, non ne sono sicura. Mi racconta che non è libero, che deve pensare a come sopravvivere, che vuole arrivare in Africa.

Gli chiedo qual è la sua più grande paura, ci pensa. Non lo sa, non mi sa dare una risposta. Non la conosce. Chiedo a cosa pensa, qual è il suo pensiero principale ogni giorno, risponde come sopravvivere, come fare in modo di andare avanti.

Gli chiedo se si sente solo, risponde di sì. Molto solo. Ma questo fa parte del viaggio, scoprire quali sono i sentimenti reali, cosa si può provare davvero: la solitudine, la paura, l’amore, la nostalgia. Quando è solo, nel mare, a bordo del suo kayak, vuole capire cos’è la solitudine, vuole sentirlo sulla sua pelle. Quando è partito da Ischia per raggiungere Capri, contro la legge, contro la natura, contro il suo stesso corpo, ha sperimentato l’estremo senso della solitudine. Ed è sopravvissuto.

Gli chiedo, più volte, di scrivere la sua storia. Ha un diario, ma non è propriamente così. Sono solo delle annotazioni che scrive ogni tanto come resoconto delle sue avventure. Io sono morbosamente curiosa, vorrei sapere tutto di lui, ogni cosa. Vorrei poterlo leggere. Risponde che non ha intenzione di scrivere per ora, che forse lo farà, quando il suo viaggio sarà finito.

Gli chiedo il nome, il cognome. Il cognome non me lo dice, non è importante. Allora come farò a sapere che si tratta di lui, quando scriverà il suo libro? Risponde che lo saprò e basta. Gli dico che è coraggioso. Risponde che non lo sa, che non gli interessa, che non pensa mai a se stesso. Non è il centro dei suoi pensieri. Si sente egoista, dice che probabilmente ciò che ha fatto è stato egoista, lasciare tutto e andare via. Senza dire nulla. Rispondo che è la sua vita e nulla di tutto ciò lo sembra.

XY è un ragazzo estremamente coraggioso, ma non lo colpisce, non si sente così. Eppure lo è, non perchè stia viaggiando da solo, non perchè abbia scelto la vita del nomade, certo questo è sicuramente un atto di coraggio, ma ciò che trovo profondamente interessante, di tutta questa storia, è la forza con cui lui stia cercando. La sua estrema e profonda necessità di vivere l’avventura, di alzarsi e camminare ogni giorno, verso l’ignoto. Di avere fame di sapere, di risposte, anche se probabilmente queste risposte non le avrà mai. E allora cosa resta? Tutto. Resta tutto. Quello che ha vissuto, le persone che ha conosciuto, le avventure che ha affrontato, i pericoli, i rischi, le scoperte.

Gli dico che non riesco a vedermi al suo posto, che io non sarei in grado. Mi dice che non è una vita per tutti. Gli dico che è pazzo, mi dice che forse è vero, gli dico che la sua vita è la cosa più affascinante che abbia mai visto, gli dico che è pazzo ma meraviglioso. Risponde che non è così meraviglioso.

XY deve andare via, deve trovare un posto in cui dormire, XX non lo può ospitare. Li saluto, le chiedo se può trovargli qualcosa da mangiare. Così XY esce dalla mia vita, nello stesso modo in cui ci era entrato. Assolutamente per caso, anche se il caso non esiste.

Penso molto a ciò che mi ha raccontato, mentre fisso il mio libro, senza muovermi. Sono assolutamente convinta di questo: non può essere tutto qui. La vita, l’università, lo studio, poi il lavoro, la casa. Non può davvero essere tutto qui e se questo è ciò che sto costruendo per me stessa allora no, non ci sto, non mi basta. Non mi posso accontentare, non mi voglio accontentare.

Di certo non ho intenzione di riempire lo zaino di provviste e sparire, non potrei mai. Il mio cuore appartiene a troppe persone per permettermi di voltargli le spalle, ma non sento nemmeno verso di loro un obbligo rancoroso, semplicemente non mi va di farlo. Ma qualcosa devo fare, un modo devo trovarlo.

XY non era in pace, io non sono in pace. Ho un bisogno dentro, che si muove, si agita. Ho un drago che è obbligato alla quiescenza. Ma non potrà dormire per sempre e io certe volte lo sento, dentro di me. Lo sento agitarsi. Percepisco le sue ali all’altezza dei polmoni che vorrebbero distendersi, stracciare la mia carne e trapassarmi le costole, stiracchiarsi intorpidite e poi, con un colpo secco, finalmente librarsi in volo. Sento la sua gola, calda, ruvida, che vorrebbe tossicchiare prima un po’, schiarirsi la voce e poi incendiare e distruggere con la sua potenza di fuoco, sento i suoi artigli, nei fianchi, che hanno bisogno di sgranchirsi, che sono quasi atrofizzati e soffrono, che vorrebbero afferrare, stringere e devastare. E’ dentro di me e soffre, perchè anche io ho bisogno della mia strada da percorrere.

Ho bisogno di vedere, di conoscere, di saziare questa inarrestabile curiosità che si impossessa delle mia gambe e della mia testa, che mi fa annegare nel mare di domande che ogni giorno ballano nella mia mente. XY non l’ho incontrato per caso, era necessario che fosse lì, perchè il drago ha fame e lui ha buttato nella sua gabbia una bestia sacrificale. L’ha sfamato, giusto un po’, quel tanto che basta per fargli desiderare ancora carne fresca, sangue e ossa. Per poter affondare ancora i denti in un corpo caldo e deglutire, saziarsi.

Ho sempre detto delle mie stupide battaglie che erano draghi per me, da combattere, perchè il cavaliere ha questo unico compito. Di cadaveri di drago ne ho molti alle spalle e altrettanti, anzi di più, mi stanno ancora aspettando, ma la maledizione vuole che questo dentro di me dovrò sfamarlo, accudirlo e lasciarlo crescere, perchè è questo che mi rende affamata. Questo è l’inizio, oggi qualcosa è cambiato e non è stato un caso. Oggi inizia qualcosa, di cui non distinguo ancora le forme ma lo sento, che vive dentro di me. Oggi è soffiato un vento nuovo, quello che mi spinge e mi accompagna e capisco perchè aveva ragione XY: io non ho paura. XY canticchiava Boulevard of Broken Dreams, non so perchè, ma non è un caso.

Il Drago e la Balena

IMG_20180727_202413Vorrei avere un motivo che giustificasse il ritorno di questa vecchia necessità, qualcosa da poter usare come un incipit ad effetto, le prime parole che colpiscono. La realtà dei fatti è che semplicemente ne ho bisogno, perchè non riesco a pensare o comunque a far uscire queste parole. Sto ancora cercando di ricostruire gli eventi, la successione di cattive idee che mi hanno allontanato da me stessa e che adesso mi stanno riportando tutto, un pezzetto alla volta. Per questo ecco la verità: lo faccio perchè mi serve, perchè ne ho voglia, perchè so di poterlo fare.

Ho vinto il drago. Pensavo di non essere in grado di una cosa simile, probabilmente perchè mi era mancato il coraggio di provarci, di armarmi fino ai denti, cercare di rallentare questo martellante battito del cuore che accorciava il fiato e lasciare il panico in un angolino della testa, nella scatola dove cerco sempre di nasconderlo. Non era necessario tutto questo, è vero che sono un po’ esagerata, ma in quel momento non riuscivo a capire e così ho aspettato, tanto. Ho lasciato che il tempo allontanasse da me ogni ricordo, ogni viso e ogni voce. Ma questo non è il mondo adatto per dimenticare qualcosa, qualcuno. Allora è stato necessario, dopo tanto tempo, salire sulla torre più alta del castello e lottare contro il drago.

Si trattava in fin dei conti di fare un solo passo, varcare un cancello. Quante volte nella vita si varca un cancello? Quante volte mi era capitato di passare proprio lì? Quanto lunga la stavo facendo dopo tutto? Non posso dire di non aver avuto paura, di non aver sentito il cuore in gola e i polmoni contrarsi di colpo. Ma per un passo solo si può anche trattenere il respiro, aspettare quel secondo infinito che separata il tuo corpo dalla superficie dell’acqua, quello lungo in cui non sai se ce la farai a tornare a galla ma ci provi lo stesso, a dare quell’ultimo colpo.

Come c’era da aspettarsi, alla fin fine, ho varcato il cancello. Il drago dormiva forse, non si era accorto di me, non aveva riconosciuto il mio odore. Per questo ho silenziosamente esplorato le sue viscere, quelle arterie familiari, in cui avevo speso tanti giorni lenti. Ho estratto la spada dalla sua guaina, pronta a captare il minimo movimento. Nulla. Silenzio e pace, serenità.

Sorge un dubbio: che fosse già morto? Che qualcuno fosse passato di lì poco prima di me ad uccidere il mio drago? Che potessi sorpassarlo semplicemente, ottenere la mia libertà senza dover lottare? Sarebbe stato poco dignitoso, poco onesto, ma semplice da accettare.

Ho continuato la mia caccia, c’era un solo modo per ottenere la verità: trovare il cuore, verificare che fosse ancora caldo. Era il mio piano. Così sono andata avanti, un passo alla volta, il mio battito troppo veloce per poterlo percepire. Ma i denti serrati, lo sguardo fisso in avanti.

Poi in un momento rapido, impercettibile, inafferrabile: eccolo. Il fulcro oscuro di tutto il male che volevo ardentemente distruggere, l’origine del demone. Davanti a me, dove chiunque avrebbe potuto trovarlo facilmente, sotto i riflettori della verità. Possibile? Nessuna protezione? Nessun controllo? Era necessario trovare il tranello. Pensare.

Era così facile, così immediato, eppure non riuscivo proprio a capire. Quante volte le cose più semplici conducono al dubbio dell’inganno. Nonostante la lenta preparazione per quel momento, non ero pronta ad affrontare una cosa semplice. Ero pronta per il drago, ero armata per il drago, ero arrabbiata con il drago. Come poteva essere tutto lì?

Era tutto lì. Afferrai la spada con forza, la issai sopra la testa: era pesante, forgiata da anni di rabbia, di rancore. Passò un instante immensamente denso, nel quale ogni ricordo stringeva più forte la mia unica arma e poi il colpo. Secco, preciso, dritto giù. Trapassò da parte a parte. Uno di quei colpi senza perdono e senza ritorno. Morte certa.

Al contrario di come avevo sempre sognato, quel grosso sasso nero e pulsante non sanguinò, ne guizzò o si mosse. Iniziò solo lentamente a sciogliersi, come ghiaccio putrido. Un cuore può liquefarsi? Nemmeno un cuore di drago può. Cosa avevo colpito? Cosa stava morendo?

Mi costò un grande sforzo di concentrazione raggiungere la verità, ma ora posso dire di aver capito ogni cosa, con lucida chiarezza. Non c’era nessun drago, non c’era mai stato nessun drago. Che poi diciamoci la verità, i draghi non esistono. Era solo una vecchia storia, bella da raccontare, soprattutto a me stessa. Io non avevo paura del drago, non mi ero allenata per quella battaglia. Avevo paura di avere paura di nuovo, di affrontare il mio stesso dolore, di tornare nel castello e combattere l’unico temibile nemico: il passato. Che non ha bisogno della difesa di alcun drago. Il drago lo avevo messo io lì, per spaventarmi e tenermi alla larga. Era solo una grossa bugia, una favola. Ma a volte (le volte brutte) è necessario crescere. Salire uno scalino in più, sconosciuto, ed accettare la verità, quella semplice, senza favole.

Allora cosa si stava sciogliendo davanti a me? Cosa avevo infilzato con la mia spada? Quel denso liquido scuro era ormai ovunque, macchiava ogni cosa, compresa me. Lo sentivo sulla pelle, sul viso, sui capelli: era pesante, appiccicoso e viscoso. Olio. Catrame. Sangue. Ancora qualche passo in avanti, una risposta era necessaria a quel punto. Cosa c’è dietro la paura? Cosa era nascosto al di là del drago? Era impossibile riuscire nel più minimo movimento, trascinata indietro da quella pesante armatura oleosa che non mi lasciava scampo. Per fortuna, bastò un solo passo, deciso e faticoso. Trovai l’unica cosa che non pensavo potesse esistere ancora.

Il pezzo mancante. Che non ci sono proprio le parole con cui posso spiegare, adesso, che parte di me fosse. Una parte importante. Una sezione mancante, un organo parte di un apparato che fino a quel momento macinava imperfetto. Dopo quella che sembrava la mia cronica dialisi, finalmente era lì, dove era sempre rimasto. Dove lo avevo sempre nascosto. Nascosto da chi? Da cosa? Non so trovarla questa risposta, perchè poi questo è solo lo sproloquio di una bugiarda, che ha mentito per molti anni, a cui manca la dote interpretativa. Che forse dovrebbe informarsi per un buon analista.

Quel pezzo, non grande, ma non trascurabile, fu semplice da rimettere al suo posto. Si incastrava ancora perfettamente, calzava a pennello. Come il vestito di una sposa, anche qualche anno dopo. Nonostante la polvere, era proprio quello il suo posto. L’abbraccio più caldo, avvolgente e genuino che possa ricordare, fu quello di tutto ciò che avevo lasciato indietro. E in un attimo fu tutto di nuovo con me, nel mio bagaglio del cuore. Caotico, urlava forte ciò che avevo paura di aver dimenticato, mi stordiva di felicità. Per la prima volta, dopo troppo tempo.

Poi arrivò la balena, che chiudeva tutta la storia, come un guardiano del passato. Tirò fuori un vecchio mazzo di chiavi, arrugginito e sonante. Quella balena che per anni mi era capitato di intravedere tra le onde, che ogni tanto c’era e molto più spesso rifuggiva nelle profondità dell’oceano, che in realtà era solo testimone di un viaggio errante e senza meta attraverso la tempesta del mio caos. Sentivo l’odore fresco del mare, che mi alleggeriva il cuore. Così finiscono le storie ? È la balena che si fa trovare? Alla fine di ogni battaglia, si trattava solo di aspettare che la vita facesse il suo corso, perseguire ogni stupida, folle, improbabile idea, con la consapevolezza che tutto, tutto, ti porta da qualche parte. Ogni passo sul tuo percorso influisce sulla strada che stai percorrendo, che è in salita, di cui non vedi la fine, per cui è meglio che inizi a costruirla come vuoi tu. Allora non mi pento di nulla, nè di ciò che ricordo con affetto, nè tanto meno delle cose che avrei preferito non fossero mai accadute. Perchè quel momento era assoluta perfezione. Tutto ti porta all’assoluta perfezione.

Ma bada bene a quel che dico: la perfezione è tale per due parametri che non sono trascurabili. Cenerentola ha avuto la notte della sua vita, ma era solo per una notte. Scoccata l’ora, tutto sarebbe tornato alla verità. È ingiusto? No. È perfetto. Ogni cosa perfetta è limitata: deve durare un solo istante e deve essere irripetibile. Solo così può essere perfetta. La dura verità è accettare che in una vita intera momenti del genere capitino di rado, se ne contano pochi e anche questo è essenzialmente perfetto. Perchè la strada è stata lunga, ma alla fine tu sei lì. Per vivere quell’istante. Deludente? Mai, lo scopri solo nel momento in cui ci sei dentro. Non è possibile credere alle mie parole, lo so. Ma arriverà e saprai anche tu che tutto è valso la pena, per quel solo istante di bellezza. Per accettare che alla fine la vita è troppo strana, troppo meravigliosa, che ne vale troppo la pena. La felicità non esiste proprio perchè è un istante di perfezione e dopo non ti resta che un ricordo, che sbiadisce e non sarà mai la stessa cosa. Vivere un momento non è ricordarlo. Ma tu eri lì e ricordi di esserci stato. E questo già vale la pena.

Ricordo la balena come un brivido, che è corso così rapido da non darmi il tempo di comprendere o almeno di domandare cosa stesse accadendo. Ma resta in me una sensazione inspiegabile, che non comprendo e forse non voglio nemmeno interrogarmi troppo a riguardo, finchè mi fa sorridere come sto sorridendo ora. Ma la balena ha chiuso il cancello e ora scomparirà di nuovo, probabilmente per sempre. La perfezione, in quanto tale, si è conclusa in quell’istante di esistenza. Un singolo battito d’ali di una farfalla, che come si dice genera un uragano, al centro del mio cuore, ma che poi alla fine giace senza vita ai piedi di un ricordo. E io ricordo e non smetterò mai più di ricordare. Ricordo il sapore alcolico, il profumo dolce, i capelli lunghi. Ricorderò sempre le tue mani sui miei capelli e le tue labbra. Per tutta la vita porterò con me la perfezione, balena bianca. Ricorderò per sempre l’abbraccio più lungo della mia vita, che significa solo addio. Ogni parola, per questo finale.

Ma più di ogni cosa al mondo ricorderò per sempre quell’impercettibile tremore, quello del fiato che si blocca, perchè non è possibile respirare e allo stesso tempo sentire il cuore che urla: ti ho cercato per troppo tempo e ora ti voglio e ti ho. Non è facile sommare un sorriso, una liberazione e una soddisfazione. Allora tremi, ti allontani un attimo e mi guardi. Perchè la perfezione travolge. Non è nulla di che, alla fine poteva essere un semplice bacio d’addio. Senza nulla di più. Ma resta unico ed irripetibile e per questo è assolutamente perfetto. Mia cara balena bianca, Addio e buonanotte.